L’abbandono
Se le “cronache dagli anni ottanta” che costituivano il tessuto mondano di Un weekend postmoderno affidavano la loro verità all’esperienza del quotidiano vissuto a un livello di pensiero che si fa scrittura nel suo stesso misurarsi con i nuovi miti, questo estremo, ultimo, definitivo. L’abbandono, scritto in parallelo, in controcanto, affonda la lama dell’indagine nella nostra fine secolo da un versante appena impercettibilmente diverso.
E la diversità è minima, appunto, perché Pier Vittorio Tondelli, comunque affronti il mondo che lo circonda, non può rinunciare alla sua vocazione di narratore. Si tratti di attraversare un paese, di esplorare una città, di incontrare personaggi, di stringere un rapporto confidenziale, Tondelli vive tutto come un’avventura, e non può esimersi dal trasformarsi, ogni volta, da osservatore a protagonista. E così nasce un racconto in cui la scrittura agisce in sé e opera tra frantumazioni e illuminazioni, con tagli secchi di sconcertante infiltrazione.
L’abbandono ci appare così come una serie di frammenti di vita che si coagulano in emozioni, stati d’animo, riflessioni, dove tutto il vissuto è partecipato e narrato, senza soluzione di continuità. Quello di Tondelli – per parafrasare Eluard – è un “racconto interrotto”, che forse neppure la morte ha potuto troncare: per quanto si lascia alle spalle, almeno, come modello di scrittura “interiore”.
(Dalla quarta di copertina della prima edizione de L’abbandono)
Ultimo aggiornamento
24 Febbraio 2022, 09:39