Giulio Iacoli
Innanzitutto devo dire che davanti a delle presentazioni così lusinghiere potrei oggi permettermi di uscire finalmente da questo rigore di studiosi che giustamente Antonio Spadaro auspica e lasciar fare la parte del filologo, dell’interpretazione più da italianista a Emanuela Patti che, insomma, parte da questo nume tutelare che è Dante.
Personalmente trovo sempre interessantissime le relazioni che parlano di Dante e il Novecento, per fare un esempio.
E dicevo lasciare un po’ questa linea più accademica e rigorosa e cercare di disarticolare il discorso, cercare di andare a vedere in frammenti assolutamente disomogenei, disorganici – non inorganici spero – come in realtà il mio tema, la felicità, venga in un qualche modo a collocarsi nell’opera di Tondelli all’ interno di una situazione che va letta sia in senso diacronico […] E vedere anche a livello sincronico come in realtà di felicità si parli molto, si parli molto in letteratura ma anche in cinema. Ricordo solamente un’iniziativa di quest’anno, il primo festival di filosofia che si è tenuto a Modena sotto gli auspici della fondazione San Carlo e che era, appunto, dedicato alla felicità.
E quindi sono intervenuti nomi come Marc Augé, Zygmunt Baumann e altri. Insomma, credo che ci sia una certa attenzione a questo rilievo tematico e mi sembrava in qualche modo un’operazione possibile quella di andare a vedere in Tondelli – che è un autore in cui a livello statistico il lessema felicità ricorre, e ricorre spesso – andare a vedere, dicevo, come questo lessema venga diversamente declinato all’interno della sua opera. A quali paesaggi, se non letterari, per lo meno dei personaggi umani, può essere applicato. E dirò un’altra cosa che è, in realtà, proprio da preporre ed è che il titolo attuale è diverso da quello a cui avevo pensato originariamente – anche se poi mi va benissimo quello che è stato detto. Il titolo è Felicità.
Nuove epifanie in Tondelli, che ho scelto perché corrisponde all’idea plurivoca di felicità a cui pensavo, mantenendo un’ambiguità tra singolare e plurale. Perché, in realtà – dobbiamo dirlo sin dall’inizio – ci sono vari gradi di felicità nell’opera di Tondelli. Probabilmente non si arriva alla felicità sognata, perseguita dai personaggi. Ma c’è un’altra cosa che credo vada detta, per sgombrare un po’ il campo da possibili equivoci: nell’ opera narrativa di Tondelli, come direi anche in molti barlumi di quella critica, emerge una verità dell’uomo tondelliano.
Una verità strutturale e anche finale, di bilancio finale. La felicità è quella della vita omosessuale completa, normale. È un’aspirazione che spesso resta assolutamente sullo sfondo, in termini umani, non raggiunta dai personaggi, siano essi il narratore di “Senso contrario” o siano essi le altre proiezioni, se vogliamo autobiografiche, dell’autore. Ma anche in termini letterari la vita felice, questa vita beata, questa comunione con un compagno, con una società che apprezzi e valorizzi la diversità resta sullo sfondo, resta confinata alle letture. Un esempio di questo tipo è rinvenibile in una cosa appunto di cui mi ero occupato nel saggio a cui faceva riferimento Antonio Spadaro e cioè Leavitt. In Leavitt Tondelli vede delle possibilità sociali diverse.
Vede dei personaggi che intersecano le loro esistenze, provano amori normali, per così dire, che però non sono votati tout court alla felicità, presentano sempre questa ricerca di felicità. C’è uno sfondo possibile – possiamo dire – di società narrativa che alla fine, molte volte, si traduce nell’ esatto contrario, infelicità. E anche questo è un’altra delle cose di cui dovremmo veramente discutere: come in realtà l’ occasione di parlare tematicamente della felicità in letteratura e, devo dire, soprattutto in cinema, si ribalti completamente nel suo opposto, l’infelicità. E da qui inizio a leggere il mio discorso, che avevo preparato facendo avanti e indietro con i testi, magari riservando alcune cose, se il discorso fosse troppo lungo, agli interventi successivi.
Ultimo aggiornamento
23 Dicembre 2021, 12:32